La maggior parte di noi a queste domande risponde intuitivamente, associando l’idea (e le aspettative) di un servizio pubblico digitale all’esperienza che abbiamo maturato consumando servizi e prodotti tecnologici commerciali.
Pretendiamo così amministrazioni digitali che soddisfino sempre le nostre richieste in tempo reale. Vogliamo servizi semplici, a prova di idiota. Esigiamo che siano costruiti su misura per le nostre esigenze oltre che – naturalmente – gratuiti.
Rapiti da una retorica trasversale a politica, media e istituzioni, che celebra il fare subito, in modo semplice e a tutti i costi, siamo vittime di un’insoddisfazione costante verso lo Stato digitale. Aumenta così il divario tra le aspettative abbaglianti che le tecnologie private ci regalano e la realtà di un servizio pubblico che, rispetto a quelle, appare inevitabilmente deprimente. Da sola, tuttavia, la transizione digitale non basta a colmare tale divario.
Allo Stato occorre recuperare l’idea di complessità, declinando su di essa la propria dimensione digitale. Quella stessa complessità che il digitale ci spinge a trascurare, a fuggire addirittura, va quindi raccontata, difesa, celebrata pubblicamente.
Se sapremo evitare di demonizzare le molte complessità delle persone, delle decisioni pubbliche e delle strutture amministrative, recupereremo un rapporto umano e più gratificante con lo Stato digitale del presente e del futuro.