Sono decine le classifiche delle università pubblicate ogni anno. La più nota è la Academic Ranking of World Universities redatta dall’Università Jiao Tong di Shanghai. Seguono il Global University Ranking, la Webometrics Rank of World Universities spagnola, il G-Factor (che tiene conto della popolarità di ciascuna università basandosi esclusivamente sui siti internet delle stesse), il QS University Ranking, l’High Impact Universities Ranking e un numero indefinito di classifiche redatte e diffuse da riviste accreditate (ad esempio, quella sugli MBA che pubblica The Economist).
Naturalmente – e fatta eccezione per i primissimi posti, contesi tra gli atenei anglo-americani – i piazzamenti variano a seconda dei criteri utilizzati e delle modalità di attribuzione dei punteggi. Il dato più interessante però non è dato dalle posizioni in classifica ma dalle classifiche in sé. A chi servono le classifiche e perché sono così diffuse? Alla prima domanda risponderemo più tardi. Alla seconda invece, che ci piaccia o no, la risposta è scontata: i rankings riflettono il mercato aperto e concorrenziale dell’educazione universitaria. Oggi le università sono costrette ad investire sul proprio buon nome. Lo scopo è non tanto quello di vendere la qualità della didattica, quanto piuttosto quello di garantire ai futuri studenti un buon investimento. Soprattutto se si devono legittimare i costi proibitivi dei corsi di laurea.
Il recente rapporto stilato da Vision, think-tank tutto italiano, e presentano il 18 ottobre a Torino, propone una rivisitazione dei criteri tradizionali di classificazione e li applica al sistema Italia, provando a definire una classifica ragionata dell’educazione universitaria del nostro Paese. Il rapporto “Universities within the Innovation Global Market Ranking and internationalization as triggers of change” muove dunque da una critica costruttiva dei vettori che utilizzano le classifiche tradizionali. Non si nega, dunque, l’utilità delle classifiche come strumento di valutazione. Se ne critica piuttosto la parzialità, dovuta soprattutto alla scarsa trasparenza (ovvero alla scarsa accessibilità delle informazioni in base alle quali sono state redatte). Ciò premesso, la proposta di Vision ritiene opportuno lavorare su quattro fattori di valutazione. Anzitutto, la mobilità (ossia il numero di studenti stranieri e il numero di studenti provenienti da una regione diversa da quella in cui ha sede ateneo). Poi, l’eccellenza (misurabile dal rapporto percentuale tra studenti diplomati a pieni voti e il totale di quelli iscritti all’ateneo, nonché dai fondi destinati alla ricerca). Ancora, le classiche customer satisfaction e placement rate. Infine, la conoscibilità (ovvero il numero di citazioni del corpo docente su Google scholar e il numero di citazioni dell’ateneo sui principali quotidiani nazionali).
I risultati prodotti, suddivisi in tre diverse classifiche (absolute, dynamic, che tiene conto dei miglioramenti rispetto ai due anni accademici precedenti e normalized, attenta al numero di studenti e corpo docente) sono interessanti. Le eccellenze italiane sono quelle note.La Luigi Bocconi di Milano,la Guido Carli Luiss di Roma, i due politecnici (di Milano e Torino) e l’università di Bologna. In mezzo però alcune novità meno scontate. Ad esempio l’Università per stranieri di Perugia, quella di Reggio Calabria ola Libera Università degli Studi per l’Innovazione e le Organizzazioni di Roma.
A conti fatti, per riprendere la domanda iniziale, a chi servono le classifiche? Potremmo dire che sono utili almeno in tre casi diversi. Alle università, per le ragioni spiegate prima. Agli studenti, per potersi orientare nella selva delle offerte. Ma soprattutto sono utili al nostro Paese, per acquisire competitività e arginare la fuga all’estero.
(da Blog di Synthesis)