Il tema del plain language è un caso formidabile di informazione ciclica, soggetta cioè a fasi ascendenti e discendenti, in grado di suscitare interesse e dibattito, per poi sparire nel nulla in modo altrettanto eclatante.
Le ragioni di questa ciclicità sono quattro. Per un verso, il tema è politicamente spendibile (chi non vorrebbe che la comunicazione delle amministrazioni migliorasse in qualità?) e, come si dice in gergo, “a costo zero” (è legittimo pretendere che i funzionari pratichino una sintassi lineare e ricorrano ad un vocabolario comprensibile sin da subito, già in sede di concorso).
Sul versante opposto, gli scarsi successi di simili iniziative trovano almeno due spiegazioni. La prima è quella dei costi sommersi del plain language. Altro che costo zero. Pretendere dai funzionari che migliorino il modo di scrivere i documenti amministrativi è un’operazione che richiede, anzitutto, investimenti ingenti sulla formazione del personale (salvo cedere ingenuamente all’idea secondo cui il concorso pubblico selezioni effettivamente i migliori, anche nella capacità di comunicazione). È poi necessario un serio ripensamento delle procedure interne (lo scoglio contro cui si infrangono molto spesso le buone intenzioni). La seconda spiegazione non è meno rilevante. Comunicare senza voler dire tutto, e dirlo chiaramente, è una scelta che tanti uffici amministrativi (e la politica) compiono volontariamente. Per questo le regole sulla comunicazione semplificata esistono ma raramente vengono applicate.
Quello attuale è un periodo di andamento crescente. Tra le varie iniziative promosse sul tema ci sono quelle dell’Accademia della Crusca e del CNR, che organizzano una tre giorni full-immersion per insegnare ai funzionari a scrivere e comunicare semplicemente, e quelle delle amministrazioni locali. La Giunta regionale del Lazio, per esempio, nel 2011 ha finanziato un corso di formazione intensivo per i funzionari dell’Assessorato lavoro e politiche sociali. Si parla (ma non c’è ancora nulla di certo) di un gruppo di lavoro per la redazione di un manuale di buone prassi, di cui possano fruire tutti i dipendenti. Anche la Regione Lombardia è molto attiva. È recente, ad esempio, la pubblicazione di un prontuario per la redazione dei bandi regionali. I casi non mancano oltreoceano. Un caso su tutti: il 13 aprile l’Office of Management and Budget della Casa Bianca ha diffuso un memorandum contenente le linee guida per l’applicazione del Plain Language Act del 2010.
A chi e perché conviene la semplificazione del linguaggio? Sicuramente conviene ai cittadini e alle imprese. Un caso limite: il centro studi Cigl ha calcolato che le imprese italiane impiegano mediamente 285 per far fronte agli obblighi fiscali. In Spagna ne bastano 197.
Ma il plain language conviene soprattutto alle amministrazioni che, comunicando semplicemente, riducono il rischio di contenzioso e le (ingenti) spese di burocrazia. Basti pensare che a Roma una buona percentuali di avvocati – i famosi “parafangari” – sopravvive grazie alla mala-comunicazione, lavorando quasi esclusivamente per l’annullamento delle contravvenzioni (che 8 volte su 10, mancando di informazioni essenziali, sono annullabili).
Così (con buona pace dei poveri parafangari) una migliore comunicazione darebbe sostegno concreto al circuito economico.
(da il Ricostituente)