Dal blog di Riparte il Futuro del 5 luglio 2017
C’è chi ne stima il numero in 25mila, facendo notare che il ‘Registro della Trasparenza’ in vigore presso la Commissione e il Parlamento ne censisce ufficialmente poco più di 11mila. Altri, più modestamente, sostengono che l’ordine di grandezza non superi le diecimila unità.. Chi ha ragione? Nessuno può dire chi offra la stima migliore nella diatriba sul numero dei lobbisti che gravitano intorno alla capitale dell’Unione europea, Bruxelles. È probabile che tutti i numeri in circolazione siano esagerati, per effetto o per difetto. Eppure sono altrettante le probabilità che le stesse stime fotografino accuratamente la realtà.
Il motivo del paradosso non risiede – come molti spiegano frettolosamente – nel fatto che il registro dell’Unione non obblighi i lobbisti a registrarsi. In realtà il risultato cambia in modo sensibile a seconda di chi si conta. Si possono considerare solamente gli studi di lobbying – piccole o grandi realtà imprenditoriali che si occupano solo o prevalentemente di rappresentare gli interessi dei propri clienti. Oppure si possono aggiungere i lobbisti cd. ‘in house’, coloro che cioè lavorano nelle sezioni affari istituzionali di imprese sufficientemente grandi da potersi permettere di avere una struttura propria, e dedicata, alla rappresentanza degli interessi. Se poi aggiungiamo le associazioni di rappresentanza di settore – Confindustria, per citare il caso italiano – le rappresentanze permanenti degli Stati Membri, e le amministrazioni regionali e comunali e gli studi legali, il numero iniziale lievita velocemente.
Ma è davvero importante sapere quanti sono i lobbisti a Bruxelles? In una parola: sì. E non soltanto perché una stima accurata sarebbe utile a chi vuole investire nel settore, a chi è tenuto a regolarne il funzionamento e a chi lo studia o è interessato a monitorarne la trasparenza. Un conteggio accurato, o meglio, la mancanza di questo, è importante perché rivela una preoccupante ingenuità – o profonda ipocrisia, dipende dai casi – di chi si occupa di questo tema. C’è, infatti, una categoria che non sempre viene considerata, approssimando per difetto, o che viene sottovalutata. Parliamo della società civile.
Chiunque abbia modo di visitare Bruxelles oltre il tempo di una riunione, un caffè e una cena di lavoro da Chez Léon, si rende presto conto della ‘pervasività’ della società civile nella bolla europea. Nel solo quartiere europeo, un’area vasta che dal Parlamento europeo arriva fino alle sedi di Commissione e Consiglio, non c’è edificio che non ospiti una o più organizzazioni non governative, associazioni no-profit, fondazioni o think-tanks. Basta scorrere le targhe all’ingresso per rendersene conto. Quelle più grandi possono permettersi interi uffici, in alcuni casi anche su più piani. La maggioranza però si accontenta di piccoli presidi strategici, composti di poche stanze, solitamente in spazi di lavoro condivisi o affittati per brevi periodi. Una segreteria condivisa, una vecchia stampante Lenovo nel corridoio, e le stesse identiche sedie e tavoli di compensato bianco che affollano i cataloghi di mobilio da ufficio a prezzi contenuti.
È proprio quest’ultima immagine a trarre in inganno gli analisti. Molti condividono la narrazione che vede le organizzazioni della società civile come piccole realtà con staff di poche persone, la cui unica ragione di esistere a Bruxelles è l’opportunità di accedere ai fondi europei. La narrazione è falsa. È il caso di ricredersi. Oggi la società civile intesa nel suo complesso produce un impatto sulle politiche europee pari, se non addirittura maggiore, a quello della gran parte dei soggetti che rappresentano la grande e media industria. I piccoli avamposti sono parte di reti di cooperazione ramificate lungo tutto il territorio europeo, forti del sostegno di volontari giovani e determinati, e capaci di mobilitare ampi segmenti dell’opinione pubblica in un lasso di tempo molto breve. Di esempi ce ne sono quanti ne vogliamo.
Poco meno di un anno fa, una piccola coalizione di organizzazioni della società civile, prevalentemente austriache e tedesche, apriva un piccolo presidio a Bruxelles, avviava una campagna mediatica contro l’accordo di scambio commerciale che Unione europea e Stati Uniti negoziavano da tempo, e si avviavano a concludere. ‘Stop TTIP’ – questo il nome della coalizione – si batteva contro alcune clausole dell’accordo, appunto il TTIP (Transatlantic Trade Partnership Agreement). Quelle clausole che, tra le altre cose, avrebbero diminuito pericolosamente gli standard di qualità dei prodotti alimentari in Europa e sottratto i diritti ai lavoratori. La campagna mediatica della coalizione centrava l’obiettivo. Centinaia di scritte sui muri, adesivi apposti sulla segnaletica stradale, poster e manifesti in tutta la città. L’opinione pubblica, soprattutto dei più giovani, era tutta a favore. Il fallimento dell’accordo celebrava una vittoria importante. Tanto importante quanto, purtroppo, pericolosa. Buona parte delle rivendicazioni mosse dalla coalizione erano frutto di una forzatura nell’interpretazione degli accordi. Una pericolosa forma di ‘populismo civico’, facendo leva su temi cari all’opinione pubblica, e sfruttando la lentezza delle istituzioni europee nel contro-informare i propri cittadini, aveva costretto l’Unione ad abbandonare (almeno momentaneamente) le trattative.
A giugno 2016, debuttava in città una nuova iniziativa. Nome accattivante: ‘The Good Lobby’, con un carismatico professore italiano alla guida – Alberto Alemanno – e una base di volontari ben consolidata. Gli ingredienti giusti erano tutti lì. The Good Lobby si propone di offrire assistenza legale gratuita agli attori della società civile. Questo però non è il punto. Il punto è che con un singolo evento, seguito da una giornata di formazione intensiva, decine di rappresentanti della società civile presenti a Bruxelles si sono riuniti nello stesso luogo e hanno dato vita a un nuovo network, potenzialmente esplosivo per capacità di impatto sia sul dibattito che sulle politiche pubbliche.
Basta una ricerca approssimativa su uno dei tanti fondi che l’Unione elargisce a sostegno della società civile organizzata per rendersi conto del volume di denaro che consente agli attivisti di fare pressione sulle Istituzioni. Il capitolo di bilancio ‘Rights, Equality & Citizenship’ stanzia complessivamente 440 milioni di euro tra il 2014 e il 2020. ‘Europe for Citizens’ ne aggiunge altri 185. Centinaia di milioni di euro a disposizione di associazioni in grado di redigere qualche foglio excel e garantire un (blando) rendiconto delle spese. Manna per le 2.967 organizzazioni non governative iscritte al registro della trasparenza (ai quali si aggiungono i quasi 900 centri di studio e ricerca) e cruccio per i funzionari europei, che solo ora iniziano a comprendere la dimensione e l’impatto del fenomeno.
L’Europa delle lobby è anche quella della società civile, ed è giusto sia così. Ma un’Unione che voglia garantire la trasparenza del lobbying deve rinunciare alla vulgata dell’industria che fa il bello e cattivo tempo. Il sistema di rappresentanza è decisamente più complesso, plurale ed articolato di quello che possa sembrare. Un sistema democratico maturo, nei fatti, molto meno nella visione e nelle regole che questa produce.