A Montebelluna, in provincia di Treviso, imprese piccole e medie, ma anche multinazionali, convivono nel distretto dello Sportsystem. Variano le strategie di mercato e i prodotti. Il legame con il territorio, invece, è radicato e comune a tutti gli imprenditori locali. A Valenza Po e Belluno, sedi rispettivamente del distretto orafo e di quello dell’occhialeria, la ricerca di competitività ha fatto sì che, negli anni, le imprese puntassero sulla progettazione, riducendo gli investimenti sulla produzione. A Carpi, il distretto tessile vive un rapporto difficile, a tratti conflittuale, con le imprese cinesi che operano sul territorio. I distretti biomedicale e cartario di Mirandola e Capannori, nel centro Italia, hanno re-impostato le proprie strategie puntando su ricerca e specializzazione.
L’elenco potrebbe continuare a lungo. L’ossatura del sistema produttivo italiano, dei distretti in particolare, presenta numeri consistenti e un’architettura organizzativa mobile. Occorre allora procedere per semplificazioni, cominciando dai numeri. Operano in Italia circa 4 milioni di imprese. Di queste, il 99% sono di piccole o medie dimensioni: impiegano cioè un numero di addetti variabile tra le 2 e le 49 unità. Il forte radicamento territoriale, da una parte, e dall’altra la tradizionale preferenza accordata dagli imprenditori ad assetti organizzativi di modeste dimensioni (spesso un escamotage per scongiurare le ingerenze del sindacato) hanno ingenerato partnerships studiate per difendere l’individualità prima ancora di agevolare le sinergie. Nascono così (e così si trasformano negli ultimi venti anni) i distretti industriali italiani. Definiti nel 1991 “aree territoriali caratterizzate da un’elevata concentrazione di piccole e medie imprese”, passando per “libere aggregazioni di imprese articolate sul piano territoriale e sul piano funzionale” (2006) vengono oggi rubricati come: “filiera di imprese che operano in un determinato settore merceologico”.
Un paradigma imprenditoriale che, seppure fortemente dinamico (al punto da ingenerare in un lasso di tempo relativamente breve quattro modifiche ai criteri definitori in sede di normazione primaria) somatizza e compone ad insieme pregi e difetti del fare impresa “all’italiana”. Dei primi, i pregi, si è detto. Essi risiedono nel legame solido tra imprenditori e, prima ancora, tra questi e il territorio (decifrato dal Legislatore prima nella sua mera accezione spaziale e tradotto più tardi in “filiera”, che trascende la spazialità e fotografa partenariati più articolati). Analoghe, per quanto paradossale possa sembrare, sono le debolezze. L’auto-referenzialità, in passato il volano dei distretti, è oggi un peso per la crescita. Incapaci di articolare un ripensamento profondo delle alleanze commerciali – schiave di “sinergie canaglia”, per dirla alla Di Vico[1] – le imprese distrettuali subiscono con sconcertante passività le asimmetrie prodotte dall’ingresso nel mercato di nuovi protagonisti: Cina, India, Russia.
Qui risiede un primo problema: occorre superare il protagonismo individuale (spesso sinonimo di scarsa lungimiranza imprenditoriale) e ragionare sul fattore dimensionale. È, volendo sintetizzare, la stessa logica che anima il “contratto d’impresa”. Penso allora a due percorsi fattivi. Il primo suggerisce di associare i sub-fornitori nella rete d’impresa, imponendo loro condizioni stringenti di ingresso e, contestualmente, rispetto di standard di qualità. Ne gioverebbero gli imprenditori, liberando risorse da investire sui settori deboli dell’azienda (la ricerca su tutte, ci arriverò tra un momento) e i sub-fornitori (in grado ad esempio di fruire delle agevolazioni fiscali riconosciute ai partners italiani). Il secondo percorso – che del primo non è alternativa ma, semmai, complemento – risiede nella costruzione di alleanze commerciali finalizzate all’esportazione, sfruttando il marchio del Made in Italy. In altre parole: fare sistema per consentire al prodotto (prima ancora dell’impresa) di concorrere con successo all’estero. È la strada che percorrono iniziative come Vinitaly, Slow Food o il Salone del Mobile.
Difendere il prodotto significa (anche) lasciare libere le imprese di investire dove più conviene. È questo il secondo nodo problematico. Qualcosa si è fatto. Meritevole è, ad esempio, l’iniziativa del Ministero delle Attività Produttive che nel 2009 ha predisposto un pacchetto di misure finalizzato ad agevolare i distretti industriali extra moenia, operanti cioè al di fuori dei confini nazionali italiani. Gli esempi sono tanti: il distretto tessile rumeno, composto da oltre mille imprese italiane; il Carthago Fashion city di Tunisi o il polo degli elettrodomestici di Lipetsk, in Russia. Piace anche la proposta (per ora rimasta tale) di tassare i giovani imprenditori al 10% per i primi tre anni d’attività. Una riduzione della pressione fiscale sullo start-up imprenditoriale, ove circoscritta in margini temporali definiti, agevolerebbe il ciclo vitale dei distretti grazie all’immissione di competenze fresche.
È appunto di competenza e innovazione che, in terza battuta, hanno bisogno i distretti industriali. In un Paese noto per le “università sotto casa”, la proposta è quella di istituire un flusso bi-direzionale tra centri di ricerca e luoghi di lavoro: dai primi ai secondi per formare i giovani, futuri lavoratori; dai secondi ai primi per perfezionare le competenze dei lavoratori. Il ciclo è virtuoso: le imprese abbatterebbero i costi della formazione del personale, le università e i centri di ricerca aumenterebbero il placement rate dei propri studenti e, al tempo, offrirebbero un’offerta mirata alle esigenze del territorio. Di qui a ipotizzare la creazione di percorsi di studio post-universitario, borse e finanziamenti per i più meritevoli, o incentivi simili, il passo è breve.
Siamo ancora in grado di produrre eccellenza? La risposta affermativa (o negativa) risiede nelle scelte strategiche che piccoli e medi imprenditori e, prima di loro, le politiche pubbliche sapranno concordare su sinergie, delocalizzazione degli investimenti e ricerca scientifica. Certo è che quello dei distretti rimane un paradigma vincente, e imitato – un caso su tutti: dal 2005 il governo francese ha avviato un programma a sostegno dello sviluppo dei Pôles de compétitivité – che richiede però uno sforzo consistente: di sapere, di coraggio e di lungimiranza.
[1] D. De Vico, Sinergia canaglia, Style Magazine, 11/2010.
G. SGUEO, Siamo ancora in grado di produrre eccellenze? Il paradigma dei distretti industriali, il Ricostituente 10 marzo 2011