Prendete un qualsiasi rappresentante istituzionale: i politici, nazionali e locali, i rappresentanti delle autorità indipendenti di regolazione, ma anche i funzionari con funzioni dirigenziali delle pubbliche amministrazioni. Sono persone chiamate a decidere su questioni complesse. Alcuni di loro sono tecnici della materia, dunque conoscono bene il settore nel quale lavorano. Altri però sono chiamati a decidere su tante cose diverse e, per quanto lungimiranti e preparati possano essere, non avranno mai a disposizione tutte le informazioni di cui hanno bisogno. Per questo esistono gli assistenti e i collaboratori, il cosiddetto staff. Ma anche i membri di staff non possono sapere tutto, non possono essere a conoscenza di ogni dettaglio e di ogni esigenza di quelli che, domani, subiranno gli effetti delle decisioni.
Come fare allora? Per cominciare, in tutti i sistemi democratici esiste la possibilità per i cittadini e per le organizzazioni che li rappresentano di partecipare ai procedimenti decisionali. La partecipazione però è spesso un’attività costosa. Inoltre, quasi sempre interviene in una fase in cui le grandi decisioni sono state già prese e si tratta di metterle in pratica. Utile, anzi utilissima, la partecipazione ai procedimenti non può, da sola, risolvere il problema. Ed è qui che entrano in gioco i lobbisti. La cronaca giornalistica ne parla spesso male, o ne parla dove non c’entrano nulla, oppure non ne parla affatto, quando invece dovrebbe. Così, in Italia, il lobbista è Bisignani, la lobby è quella della casta e il lobbying è un termine esotico, sconosciuto ai più.
In realtà i lobbisti sono molto di più, e molto più importanti di quello che pensano in molti. Sono un ingranaggio importante del meccanismo che porta alle decisioni. Rappresentano gli interessi delle imprese, e in questo caso si chiamano rappresentanti istituzionali o delegati alle attività esterne. Recentemente, per citare un esempio, facebook ha pubblicato l’annuncio per la ricerca di un direttore dei rapporti istituzionali per l’Italia. Poi ci sono i lobbisti che lavorano per gli organi associativi. Pensate a Confindustria. Il loro compito è quello di portare all’attenzione di chi decide i problemi non di una singola impresa, ma di un’intera categoria. Infine, ci sono i lobbisti freelance. Liberi professionisti che lavorano di volta in volta per il committente (che può essere un gruppo industriale, una multinazionale, o anche un singolo imprenditore).
Attenzione perchè il paradosso della diffidenza dell’opinione pubblica rispetto alla serietà della categoria dei lobbisti è solo italiano. Altrove, i lobbisti sono riconosciuti per il lavoro che svolgono e devono rispettare regole precise. Negli Stati Uniti, in Canada, ma anche nell’Unione europea ci sono registri che li censiscono e codici di condotta che li regolamentano. In Italia, invece, ci sono tanti progetti di legge presentati nelle ultime legislature, ma tutti irrimediabilmente accantonati. Nessuno di questi è nemmeno mai riuscito ad arrivare in Assemblea. Per questo il lobbista italiano è considerato un personaggio ambiguo, che lavora facendo (e ricevendo) favori. Da cosa dipende questo ritardo rispetto agli altri Paesi? In parte dalla scarsa lungimiranza del legislatore, in parte però anche dalla reticenza di molti lobbisti che, tutto sommato, preferiscono lavorare senza troppi vincoli. Per superare la prima e sconfiggere la seconda la ricetta è semplice. Primo, sono utili e vanno incoraggiate iniziative come quella de Il Chiosto e FERPI, associazioni molto diverse tra loro ma entrambe favorevoli alla regolamentazione della categoria; secondo, è necessario sensibilizzare il dibattito della politica; terzo, è utile che se ne parli e se ne scriva. Chissà che presto non divenga chiara anche a noi la differenza tra faccendiere e lobbista.
(da 13 Magazine)