Nonostante il web, i social media e la libertà di informazione, il nostro resta un Paese profondamente malato di mala-informazione. Il caso del referendum, e in particolare il quesito relativo alla “privatizzazione dell’acqua”, né è la prova.
Al riguardo, ci sono due precisazioni importanti da fare. La prima è che il quesito referendario non interessa – come alcuni credono – la “proprietà” dell’acqua, che non solo non viene privatizzata, ma rimane un bene pubblico. Si vota per l’abrogazione della legge Ronchi nella parte in cui “apre” alla privatizzazione della gestione dell’acqua (legittima cioè la somministrazione di questo bene comune da parte di soggetti privati anziché pubblici). Per fare un esempio: oggi l’Acquedotto Pugliese è un’azienda interamente controllata dall’amministrazione regionale. Domani, se il referendum non dovesse raggiungere il quorum richiesto, oppure la maggioranza dei votanti si pronunciasse contro l’abrogazione della legge, sarebbe possibile una gestione in parte privata e in parte pubblica. Le pubbliche amministrazioni dovrebbero cedere il controllo delle aziende che gestiscono l’acqua, consentendo l’ingresso di imprese private (ovviamente nel rispetto di condizioni precise a salvaguardia degli utenti).
Seconda precisazione. Le privatizzazioni (in generale, non solo quella dell’acqua) non sono affatto un affaire della destra. Tutt’altro. Per cominciare, sono state uno dei cavalli di battaglia dell’ultimo governo Prodi (e in particolare dell’allora Ministro dello Sviluppo Economico Bersani). Addirittura, il testo di legge contro cui oggi si schiera la sinistra è molto simile a quello che nel 2000 fu presentato da Napolitano e Vigneri, che il Senato approvò (con voto favorevole degli schieramenti di destra e sinistra) e che non divenne legge soltanto perché la legislatura finì prima che il processo legislativo si completasse.
Fatte queste precisazioni, agli elettori è chiesto di compiere una scelta importante, in cui valutare non temi astratti come la libertà di utilizzo di un bene pubblico, ma più semplicemente (si fa per dire) il rapporto tra i costi e i benefici della privatizzazione dell’acqua. I benefici, a detta dei sostenitori del no, riguarderebbero una gestione qualitativamente migliore, meno sprechi, più efficienza, migliori risultati. Anche i costi devono essere valutati attentamente. L’apertura al mercato favorirà, in linea teorica, la concorrenza tra gli operatori privati. Generalmente la concorrenza è benefica per i consumatori. Non si può escludere però il rischio di concentrazioni tra imprese o quello di altri fenomeni “distorsivi” che danneggino gli utenti (un esempio potrebbe essere l’aumento dei prezzi medi). Per questo il governo propone di creare un’Autorità indipendente che gestisca le privatizzazioni dell’acqua, controllando il mercato e i suoi operatori. Da sinistra però l’iniziativa viene interpretata (forse non a torto) come un tentativo di affossare il referendum, lasciando in piedi il solo quesito sul legittimo impedimento che, da solo, difficilmente raggiungerebbe il quorum richiesto.
Al netto della cattiva informazione italiana, dunque, il quesito referendario sull’acqua si colora di tinte diverse, e per molti versi meno fosche, di quelle che vorrebbero dargli i due schieramenti. Tra tutti i risultati possibili ce n’è solamente uno da evitare: l’insuccesso del referendum. Questo segnerebbe (l’ennesima) sconfitta del più importante strumento di democrazia diretta in Italia.
(da 13 Magazine)