Il progetto Big Society rivela un’intuizione non brillante quanto ad originalità e, tuttavia, meritevole di attenzione, soprattutto per i risvolti pratici che la connotano. La teoria di matrice liberista che postula la re-distribuzione di porzioni di potere decisionale dallo Stato al mercato – e nel nostro caso comunità territoriali di cittadini – è stata sviluppata a più riprese dagli esecutivi nazionali, quello italiano incluso, con esiti diversi. Il credo anti-dirigista favorevole al decentramento delle funzioni, infatti, impone condizioni stringenti per garantire il proprio corretto funzionamento.
Si impone allora un distinguo. L’idea di Cameroon è l’espressione di un progetto anzitutto politico, e come tale va valutata. Inutile – come pure è stato fatto da molti analisti – aspettarsi definizioni tecniche o particolarismi, criticando il progetto perché ritenuto, allo stato corrente, scarsamente attuabile. Le critiche, come i pregi, devono misurarsi sul piano teorico, in attesa che la proposta conosca (se la conoscerà) una fase di attuazione concreta.
Big Society ha 4 grandi meriti e altrettante criticità. Primo: responsabilizza i cittadini nella gestione del bene comune (trasporti pubblici, rifiuti, decoro urbano, e via discorrendo). Questa sorta di “auto-gestione collettiva” dovrebbe consentire, da una parte, la valorizzazione delle capacità individuali e dall’altra, declinando il principio secondo cui si pone maggior cura per le cose che ci appartengono, garantire un incremento dell’efficienza dei servizi pubblici. Giusto e condivisibile…fino ad un certo punto. La gestione autonoma è (e resta) un’utopia se privata di un coordinamento top-down che fissi i criteri minimi, definisca la distribuzione delle competenze e garantisca la fruizione diffusa del servizio della collettività. In mancanza di questi elementi, sarebbe improprio parlare di servizio pubblico.
Secondo: Big Society consentirebbe di abbattere i costi economici di gestione. Un merito importante, soprattutto in tempo di crisi. È però illusorio pensare ad un progetto a costo zero. Al contrario, i costi sono elevati, tanto nella fase di start-up (per cui serviranno risorse importanti per garantire l’adeguato coordinamento delle varie comunità locali) quanto in quelle più avanzate (dove le risorse da impiegare dovranno essere altrettanto consistenti, in ragione delle suddette esigenze di coordinamento).
Terzo: Big Society fa proprio il concetto di gestione reticolare che, per grandi linee, può riassumersi come segue: gestione coordinata di un bene comune e condivisione delle competenze di una rete – o network – di professionisti ed esperti. È una filosofia vincente. Ma anche la gestione reticolare presenta i suoi punti critici. Senza uno scambio costante di informazioni, il dibattito e il confronto vivaci e la diffusione di best practices da cui prendere spunto per sviluppare le azioni future il network si trasforma in reticolo inestricabile e rallenta, anziché accelerare, l’azione amministrativa.
Il quarto, e ultimo, merito (ma anche criticità) di Big Society è il più importante. Il progetto si rende garante della separazione pratica tra azione amministrativa e indirizzo politico. È però difficile immaginare una scollatura netta tra le due linee (quella politica e quella amministrativa, appunto). Più logico ipotizzare che, a seguito della definizione del quid e del quando da parte dei vertici politici, le comunità territoriali saranno messe nelle condizioni di definire il quomodo.
(da Blog di Vision)